Le Nostre Storie Series Ep.2
Lo si impara sui libri al primo contatto con le teorie dell’organizzazione e del management. A parte la strategia e la struttura, che restano i principali driver della costruzione e guida di ogni organizzazione, al fine di avere una visione d’insieme (un tempo si diceva “sistemica”) del funzionamento e del cambiamento organizzativo,
si tratta di considerare alcune altre variabili fondamentali: la tecnologia, le persone, la cultura; buon’ultima veniva quella dei “meccanismi operativi”.
Con questa espressione ci si riferiva ad un insieme molto ampio e articolato di “oggetti” organizzativi: in primo luogo i processi e i sistemi di gestione (dalla pianificazione al controllo, fino allo sviluppo delle persone); ma anche i veri e propri meccanismi operativi mediante i quali le organizzazioni operano e le persone comunicano, scambiano informazioni e conoscenze, prendono decisioni e stabiliscono azioni. Le riunioni e gli organismi della governance e del coordinamento organizzativo, i comitati aziendali e di settore; i consiglii di amministrazione, quindi, i comitati di direzione (i “board of directors”), i comitati operativi ad esempio per la gestione delle politiche HR o per la gestione del capitale umano (potenziali, liste di successione ecc.).
Negli ultimi anni sono sempre più numerosi i casi di interventi di sviluppo organizzativo che hanno visto un ruolo sempre più rilevante del lavoro di costruzione di nuovi meccanismi operativi (“m.o.”) o di ridisegno di quelli esistenti.
Le motivazioni di questa ritrovata centralità dei m.o. sono varie, ma tutte relative alla necessità di rinforzare il tessuto connettivo dell’azione di imprenditori, manager, specialisti, nonché di facilitare e sostenere processi chiave per il successo di un’impresa: la presa di decisioni, la gestione dell’innovazione, l’analisi dei risultati – e soprattutto degli insuccessi e dei mancati obiettivi – con la necessaria ricerca e attuazione di azioni correttive.
Potremmo raccontare numerosi casi. Può essere sufficiente mettere a fuoco un paio di situazioni principali in cui si raccomanda la focalizzazione sui meccanismi operativi. Vediamo l’esempio di un’impresa familiare e successivamente l’esempio di un’impresa standard.
Nelle aziende imprenditoriali/familiari, dove cioè alla guida c’è un imprenditore – “il padrone” – oppure una famiglia, una delle questioni cruciali è la disponibilità dell’imprenditore ad andare oltre una gestione centrata solo su di sé
agendo invece per una progressiva delega e responsabilizzazione dei manager; non solo per salvaguardare l’imprenditore stesso, ma soprattutto per rendere possibile una crescita duratura e la stessa successione generazionale.
Qui i m.o. agiscono come una palestra che abitua – ed educa – sia l’imprenditore che i suoi collaboratori ad esercitare un controllo e una guida che non implichi un accentramento costante e capillare.
All’interno dei m.o. (che siano il CdA o il CdD), l’indirizzo e il controllo sono facilitati da un certo livello di formalizzazione e sistematizzazione delle comunicazioni, delle informazioni da produrre e condividere, dei piani di azione di cui i collaboratori si assumano la responsabilità di fronte all’imprenditore.
D’altro canto, nelle imprese creative, nelle start-up, nelle organizzazioni in cui sono presenti gruppi numerosi di specialisti di livello elevato – si pensi ai centri di ricerca scientifico-tecnologica oppure, in un ambito molto diverso, alle imprese di c.d. “alta gamma”,
la tendenza pressoché naturale, a parte una certa predilezione per il “caos organizzato”, è quella di fare delle specializzazioni dei sottosistemi isolati e autoreferenziali, con scarsi scambi con altri gruppi all’interno della stessa organizzazione.
Si pensi solo – lo diciamo per esperienza diretta – a quanto risulti faticosa, ad esempio, l’azione della funzione Risorse Umane in organizzazioni “duali” come sono gli ospedali, le università, le imprese editoriali.
In tutte queste pur diverse realtà, la focalizzazione sui m.o. ha l’indubbia utilità di abituare – e anche in questo caso educare – i diversi soggetti individuali e gruppali a riconoscere l’utilità di un confronto sistematico e mirato con gli “altri da sé” e a riconoscere che il confronto e la transdisciplinarità non impoveriscono ma, al contrario, arricchiscono i contributi di ogni specialista.
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