Identità e valori per lo sviluppo della cultura d’impresa
- annalisa mellone
- 15 lug
- Tempo di lettura: 5 min
Dalla diagnosi alla trasformazione: perché le organizzazioni oggi si interrogano su cultura, comportamenti e purpose
Cosa ci dice davvero come sta un’organizzazione?
È la domanda da cui parte ogni intervento di sviluppo organizzativo, soprattutto quando si adotta un approccio clinico, come quello psicosocioanalitico di Modus. Una domanda che torna urgente ogni volta che un’impresa — for profit o not for profit — chiede un’indagine di clima, segnalando incertezza su “come sta” la propria organizzazione.
C’è collaborazione? Fiducia? Morale sufficiente per affrontare le sfide? O solo percezioni vaghe?
La risposta passa dalla cultura. E non quella scritta nei valori incorniciati in bacheca, ma quella vissuta, che si sedimenta nei comportamenti quotidiani e nei silenzi organizzativi.
Troviamo particolarmente efficace la metafora proposta da Edgar H. Schein – grande maestro dello studio delle organizzazioni – e da suo figlio Peter A. Schein, per descrivere la cultura organizzativa così come si manifesta, sia agli occhi di chi arriva dall’esterno, sia per chi la vive dall’interno.
Immaginano la cultura come uno stagno di ninfee, composto da diversi strati.
Il primo livello, quello visibile in superficie, è fatto di ciò che colpisce immediatamente lo sguardo: gli artefatti. Sono le forme più evidenti della cultura aziendale, ciò che si può vedere, udire e percepire nell’incontro con un gruppo o un’organizzazione sconosciuta: l’architettura degli spazi, il linguaggio usato, le tecnologie, i rituali, le cerimonie, le produzioni artistiche.
Per visualizzarlo, pensiamo a una visita guidata in uno stabilimento.Tutto ciò che la guida mostra e spiega – le macchine, le persone al lavoro, l’organizzazione degli spazi, i materiali, i prodotti finiti – sono artefatti: elementi tangibili e raccontabili, che danno una prima immagine della cultura, ma che non ne esauriscono il significato.
Accanto agli artefatti, Schein individua un secondo livello della cultura organizzativa: i valori dichiarati. Si tratta di ideali, obiettivi, aspirazioni e convinzioni che l’organizzazione esplicita attraverso la comunicazione – sia verso l’esterno che all’interno. Questi valori sono visibili nei siti web, nelle brochure aziendali, nei cartelli affissi negli uffici, nelle comunicazioni rivolte ai dipendenti. In sintesi, rappresentano come l’organizzazione desidera essere percepita, tanto dagli stakeholder esterni quanto da chi la vive dall’interno.
Ma per capire davvero la cultura di un’organizzazione, è necessario scendere ancora più in profondità.
Sotto la superficie dello stagno – usando sempre la metafora di Schein – troviamo il terzo livello: gli assunti taciti. Si tratta di credenze radicate, spesso inconsapevoli, che orientano decisioni, comportamenti e relazioni. Sono proprio questi assunti, invisibili ma presenti, a generare nel tempo sia i valori dichiarati che gli artefatti.
Non sempre, però, questi tre livelli sono allineati. Spesso emergono contraddizioni tra ciò che viene dichiarato (valori) e ciò che si osserva (artefatti e comportamenti).
Per comprendere queste discrepanze, è necessario “immergersi nello stagno” e risalire agli assunti taciti che ne costituiscono la base.
Autori diversi ci hanno aiutato a mettere a fuoco quanto le cerimonie, i riti, gli appuntamenti ricorrenti e persino le “saghe” aziendali – episodi che raccontano momenti eroici o decisivi – siano portatori di valore simbolico.Rinforzano la continuità, danno stabilità e identità, rappresentano materiale prezioso per osservare e comprendere la cultura di un’organizzazione.
Le organizzazioni oggi si interrogano sempre più sulla propria identità. Lo fanno perché sentono la fragilità del proprio equilibrio, soprattutto dopo crisi, acquisizioni, cambi generazionali o momenti di passaggio.
Comprendere o cambiare?
Capire un’organizzazione e accompagnarla nel cambiamento non sono la stessa cosa. Schein ci ricorda che il cambiamento può essere anche una chiave di lettura: modificare un’organizzazione significa attivare dinamiche che ne rivelano il funzionamento profondo.
Per lavorare su ciò che sta sotto la superficie, servono metodologie qualitative: interviste in profondità, focus group, restituzioni collettive.
L’obiettivo non è solo raccogliere informazioni, ma coinvolgere le persone nell’elaborazione di senso, verificare ipotesi, riconoscere connessioni tra artefatti, valori e assunti.
È proprio qui che si apre la dimensione progettuale della cultura: la possibilità di accompagnare l’organizzazione verso una trasformazione che parta da ciò che già esiste.
Identità: una costruzione coerente
Uno degli elementi centrali in questo lavoro è l'identità organizzativa.Nata nel campo della comunicazione e delle relazioni pubbliche, oggi la corporate identity ha assunto un significato più ampio: racconta la personalità di un’organizzazione, i suoi obiettivi, i suoi valori, la sua strategia, la sua storia.
Tutto ciò che l’organizzazione fa – dai prodotti agli spazi, dalla comunicazione ai comportamenti – dovrebbe riflettere una visione coerente.Una coerenza visibile all’esterno, ma prima ancora percepibile all’interno.
L’identità non è qualcosa che “esiste in sé”, ma un lavoro continuo per costruire una percezione condivisa tra tutti gli stakeholder, a partire dai collaboratori.
Dai valori ai comportamenti
In Modus lavoriamo per accompagnare le organizzazioni nella definizione dei valori condivisi, che non siano solo enunciati, ma leve reali di orientamento. I valori sono ispirazione. Come le stelle per i marinai: indicano la direzione, ma non la posizione esatta.
Non descrivono l’organizzazione com’è, ma come vorrebbe essere.
Perché diventino efficaci, però, devono tradursi in comportamenti.
I comportamenti attesi sono espressioni visibili dei valori: aiutano le persone a capire come agire, come relazionarsi, come contribuire. Sono osservabili, anche se non sempre misurabili. Un manager dovrebbe poter riconoscere se un collaboratore si muove in linea con i valori condivisi, non attraverso giudizi soggettivi, ma a partire da comportamenti concreti. L’identità si costruisce proprio così: attraverso la coerenza tra ciò che si dichiara e ciò che si agisce.
Il purpose come orientamento
Il lavoro sui valori e sui comportamenti ha anche un’altra funzione fondamentale: aiuta le persone a comprendere in che tipo di azienda si trovano, e perché il loro lavoro ha senso.
Questo è il cuore di ciò che oggi chiamiamo purpose: lo scopo, il mandato, la ragione per cui un’organizzazione esiste. Un purpose ben definito dà orientamento, senso, direzione. Favorisce il senso di appartenenza e aiuta a navigare le complessità e le instabilità che caratterizzano i contesti attuali.
Perché ora?
Cosa spinge oggi tante organizzazioni a interrogarsi su cultura, identità, valori, comportamenti? Perché cresce l’esigenza di legare radici e futuro, continuità e innovazione?
Le risposte possono essere molte.
Tra le più evidenti, la consapevolezza che la tenuta di un’organizzazione dipende oggi da molteplici fattori, tra cui – in modo decisivo – le competenze e i comportamenti delle persone, soprattutto nella leadership.
Già prima della pandemia, grandi trasformazioni – fusioni, ristrutturazioni, cambi tecnologici – chiedevano un riallineamento del mindset. Oggi, questo bisogno è ancora più evidente.
Quanto tutto ciò sia motivato da un interesse genuino per il benessere delle persone, o da un’esigenza pragmatica di gestire la complessità, poco importa:quello che conta è che, sempre più spesso, la domanda iniziale si traduce in un bisogno di comprensione profonda.
È qui che si inserisce il ruolo del consulente con approccio clinico.Un ruolo che non porta soluzioni pronte, ma attiva processi di consapevolezza. Che non pretende di “curare” l’organizzazione, ma la accompagna a imparare ad aiutarsi.
Testo a cura di Matteo Fantoni e Dario Forti




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