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INTERVISTA FRANCESCA RIZZI

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Grazie, anzitutto, Francesca per condividere con noi queste riflessioni a partire dal convegno di MODUS, in cui sei intervenuta. Partiamo da una prima domanda, con uno sguardo al passato recente. Si parla sempre di più di benessere, allora ti chiedo, com’è cambiata l’idea di welfare in questi ultimi anni?

 

Partiamo da una premessa: per decenni nelle imprese abbiamo agito una visione del lavoro che si è limitata alla sua dimensione “acquisitiva”: in cambio delle 8 ore di lavoro che tu lavoratore dai all’azienda, vieni pagato il giusto salario che ti permette di vivere e soddisfare i tuoi bisogni.

In questa visione del lavoro, la dimensione del benessere della persona viene collocata al di fuori del “perimetro di responsabilità” dell’azienda. E infatti generalizzando, il modello di welfare aziendale che si è diffuso più rapidamente e facilmente negli anni scorsi è figlio di questa visione: si è pensato di poter migliorare il benessere semplicemente “comprando un voucher”, ovvero erogando delle risorse aggiuntive affinchè i collaboratori potessero risolvere in autonomia le proprie necessità, qualunque esse fossero. Il tema del benessere o del welfare è entrato in azienda ma in modo completamente disintermediato. Si è provveduto solamente alla sua dimensione economica.

 

Credo però che, dopo la pandemia, si sia accelerato un processo di cambiamento, frutto della consapevolezza che questa visione del lavoro non è più attuale: le aspettative delle persone (e in particolare delle nuove generazioni) verso il lavoro stanno cambiando, e alla dimensione acquisitiva si affianca quella realizzativa del proprio potenziale e aspirazioni.

Di conseguenza l’approccio al welfare che ho descritto prima non è più sufficiente, perché la ricerca del benessere è anche all’interno del lavoro e i lavoratori si aspettano dal datore di lavoro risposte che le organizzazioni devono attrezzarsi per soddisfare.

 

Allora, fermiamoci un attimo sul legame fra welfare e mercato del lavoro, mi sembra un aspetto di contesto, più ampio, che forse merita di essere approfondito.

È, questo, un aspetto sostanziale per le organizzazioni. Il contesto di mercato oggi è caratterizzato da due elementi oggettivi: uno quantitativo e uno qualitativo. Quello quantitativo riguarda lo “shortage” di lavoro: tutti faticano a trovare lavoratori perché siamo un paese vecchio che fa sempre meno figli da decenni, perché è difficile attrarre un sufficiente numero di lavoratori stranieri, e perché metà della forza lavoro femminile è esclusa dal mondo del lavoro. Questo è un problema strutturale che vedrà le aziende sempre più in affanno per coprire le posizioni lavorative aperte, con conseguenti problemi di produttività, competitività e costo del lavoro. Quindi il problema è quello di rendersi attrattivi in modo continuativo, perché se non lo sei le persone non vengono a lavorare da te o se ne vanno, e oggi hanno molte più alternative rispetto al passato.

Il secondo grande trend è invece più qualitativo, di natura sociologica, legato proprio al patto del lavoratore con l’azienda. Oggi le persone che si approcciano al lavoro portano un'aspettativa diversa da quella che portavano in passato. Il lavoro stesso oggi rientra all'interno di una cornice più ampia, potremmo dire di senso. Per cui se ci sta, bene; se non ci sta, cambio. E cambio più facilmente. Cambio, senza avere una visione di carriera di lungo periodo. Sono proprio le priorità ad essere diverse.

E, in questo scenario, il tema del benessere, dove lo collochiamo?

 

Vengo al punto. Questi due trend, ci dicono che le aziende che si vogliono rendere attrattive devono pensare di offrire un'esperienza lavorativa che faccia stare bene, perchè è proprio l'esperienza lavorativa che fa stare bene le persone, e non qualcosa di esterno che ti dà una piattaforma. La piattaforma può contribuire alla qualità dell’esperienza lavorativa, ma assieme e in coerenza con i percorsi di sviluppo, la qualità delle relazioni interne all'azienda, la cultura managerialee via dicendo.

Credo che sia questo il cambiamento culturale in corso: riportare il tema del benessere all’interno dell’azienda e non limitarlo a un tema di potere d’acquisto.

Il cambiamento che oggi vediamo è proprio il frutto di un contesto di mercato del lavoro che sta spingendo verso una riflessione diversa sul benessere, non più in chiave economica o in chiave di crisi emergenziale - come abbiamo visto in pandemia e post-pandemia - ma in chiave più strutturale, in chiave di empowerment della persona. Ciò passa dalla sua abilitazione, nei diversi momenti della sua vita: professionale, personale, lavorativa, privata, così che possa stare bene, con energia e motivazione alla professione.

 

Cioè ci stai dicendo che il luogo di promozione del benessere delle persone è anzitutto l’organizzazione? Senza separazioni e senza relegare il welfare ai “gettoni” che si possono spendere nella propria vita privata?

 

Dobbiamo fare il passaggio dal benessere, come iniziative, al benessere, come outcome. Ovvero una concezione di benessere come risultato di un'esperienza lavorativa in cui l’azienda “ti vede” e si accorge di te a 360 gradi, sostenendoti con determinati strumenti, laddove e quando tu ne abbia bisogno. Perciò, il benessere è il risultato. E pensare il benessere in chiave di risultato vuol dire che devi ripensare, all'interno dell'azienda, processi, cultura, management.

 

Secondo te oggi di cosa hanno bisogno le organizzazioni per assumere la prospettiva che hai appena descritto? Che resistenze vedi?

Allora, in primis a mio avviso manca l’accorgersi del cambiamento in atto. La consapevolezza c'è, però io la vedo ancora “a macchia di leopardo” all'interno delle organizzazioni. Manca una visione sistemica e lucida del problema a livello più ampio, più propriamente organizzativo. In questo senso, gli HR che non sanno sostenere attraverso i dati le ragioni della necessità di un cambiamento sono un problema: perché per portare un cambiamento e far capire qual è il costo di non agire, il passaggio dall’analisi e dai dati è cruciale.

Quindi, il non accorgersi, a mio avviso, è anche frutto di una scarsa attitudine da parte delle funzioni HR ad argomentare con i dati le fenomenologie in corso. Se un capo delle operation ti dice che  è necessario fare un investimento per cambiare dei macchinari ti spiega che potresti ottenere lo stesso risultato risparmiano “x” tempo, usando “x” energia in meno, con “y” persone in meno beh…ti fa capire che cambiare ti conviene. Ecco, non vedo, oggi, un linguaggio di argomentazione del cambiamento che – generalizzando - sia comprensibile al top management.

 

Quindi un approccio data-driven rimane una delle vie maestre?

 

Sì, ma da solo non basta. C’è un altro punto, secondo me, importante e strettamente connesso col precedente: è il tema della comunicazione. Intendo con questo la ricostruzione di una cultura organizzativa diversa, l’avviare dialoghi e modelli relazionali nuovi, su presupposti nuovi.

 

Non basta progettare i migliori interventi o strumenti per il benessere. Perché poi questi interventi devono arrivare alla pancia delle persone, non solo alla testa. Deve arrivare il perché ti sto proponendo qualcosa di nuovo, l’importanza del cambiamento che ti propongo, la logica di reciprocità su cui questo nuovo approccio al benessere è fondato.

Se pensiamo a quanto si è trasformata la comunicazione negli ultimi vent’anni, intendo quella esterna, nel mondo che ci circonda, e poi andiamo a guardare come le aziende comunicano internamente, beh, sembra che siano due ere glaciali separate.

Spesso sento gli HR che dicono “ma comunicare non è un mio compito, ma di qualcun altro”. Eh no! Purtroppo, non funziona così! Se il tema è abilitare dei canali e dei linguaggi nuovi, indipendentemente da dove la organizzi, la comunicazione interna la devi fare anche tu HR, non può essere demandata a una terza parte, più o meno esperta. Quello che voglio dire è che non è un tema di qualità. Rimane il fatto che oggi, il 51% del problema l'abbiamo sulla comunicazione.

Restiamo sulla funzione HR. Nel tuo intervento al convegno di Modus hai descritto questo periodo storico come affascinante e di grandissima trasformazione e, al contempo, sottolineavi come nella complessità più che di ricette facili ci sia bisogno di ricerche. La domanda è: di fronte a questa sfida quale profilo HR immagini per le organizzazioni?

Al convegno si parlava di architetti del lavoro, di come nelle organizzazioni ci sia bisogno di ripensare delle nuove architetture del lavoro. Mi è sembrata una bella metafora. Ripensavo, anche a partire da quello che faccio, a quanto siamo chiamati a lavorare in modo molto interdisciplinare, con designer, progettisti, psicologi, persone esperte di comunicazione. Ma tutte queste competenze tu-azienda dovresti avercele “in casa”, almeno se parliamo di aziende di certe dimensioni. Quindi c'è bisogno di fare evolvere sicuramente il ruolo di HR in una maniera molto trasversale e, devo dire, i clienti con cui lavoriamo questa necessità la esplicitano in modo molto forte perché il livello di complessità si è certamente elevato.

Parlando della necessità di una diversa ampiezza di sguardo da parte della funzione HR, ti chiedo allora, in che relazione sta questo aspetto con lo sviluppo organizzativo? Sappiamo che in molti casi, anzi, quasi sempre, gli HR non partecipano allo sviluppo organizzativo - intendendolo come un processo più complessivo, più ampio nell’organizzazione, non focalizzato su aspetti micro.

 

Credo sia un problema, se non sono anche gli HR a partecipare allo sviluppo organizzativo. Mi spiego. Se c’è una funzione che, secondo me, più di altre dovrebbe avere un occhio trasversale su questi aspetti, è proprio la funzione HR. In questo senso, vedo l’HR come l’abilitatore di una consapevolezza che deve essere sicuramente trasversale, su tutta l'organizzazione, con uno sguardo che comprende tutti gli attori coinvolti.

È un dato di fatto tuttavia che per decenni – genericamente parlando - la funzione HR si è limitata a un ruolo di gestione del costo del personale, perdendo così la credibilità come interlocutore strategico e quindi, meno sei strategico, meno vieni coinvolto nello sviluppo organizzativo.

Allora ti chiedo come si può uscire da questo circolo vizioso? È una questione di upskilling dell’HR o gioca un ruolo importante anche il CEO?

 

Mi viene da dire che ogni CEO ha il tipo di funzione HR che desidera. Allo stesso tempo è chiaro che, se l’HR non inizia ad attrezzarsi in modo nuovo, con un linguaggio e degli strumenti diversi, non riuscirà mai a cambiare posizionamento. Quindi, sicuramente ci deve essere un CEO propenso all'ascolto e al coinvolgimento della funzione HR nelle decisioni strategiche, però io credo che la prima parte la debba fare HR, posizionandosi nei confronti del top management con up approccio diverso, altrimenti non si esce da questa situazione.

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