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INTERVISTA PAOLO IACCI

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Abbiamo chiesto a Paolo Iacci di dedicarci qualche minuto per aiutarci a mettere a fuoco alcuni passaggi del suo intervento al convegno di MODUS del 12 aprile e Paolo con grande disponibilità si è intrattenuto con noi, dialogando e aiutandoci a comprendere meglio aspetti importanti del rapporto fra welfare, engagement e total quality, per poi fare un passaggio sul ruolo della funzione HR nello scenario attuale.      

 

Anzitutto grazie Paolo, per il tempo che ci dedichi. Partiamo da un aspetto che hai sottolineato al convegno: la differenza fra engagement e soddisfazione. Ci aiuteresti a capire meglio questa distinzione?
 

Ti faccio un esempio di vita quotidiana: se tu mi inviti a cena, immagino ad una cena prelibata, nell’uscire di casa mia io controllo che sia tutto a posto, gas chiuso, luci spente…; finita la cena, che mi ha lasciato molto soddisfatto, non mi preoccupo però che casa tua torni ad essere in ordine, con le briciole raccolte e i piatti lavati. Questa è la differenza sostanziale tra soddisfazione ed engagement. Fuor di metafora, l’engagement presuppone che io senta il mio lavoro, l’azienda in cui opero, come “casa mia”; se invece sono trattato sufficientemente bene e pagato il giusto ma poco ingaggiato e coinvolto, potrò essere soddisfatto ma difficilmente mi sentirò motivato.
 

Provo a collegare questa tua distinzione al tema del welfare, altro aspetto di cui si è parlato nella mattina del 12 aprile. I dati mostrano come gli investimenti in welfare siano cresciuti, ma non si può dire altrettanto degli esiti attesi sull'engagement. Oggi, è sufficiente trattare il tema dell’engagement esclusivamente in rapporto al welfare o è necessario leggerlo alla luce di un insieme più ampio di variabili organizzative?   

Viviamo una situazione paradossale: assistiamo ad investimenti elevati nel welfare, non considerando che è una parte del total rewards che remunera la prestazione. La compensation si occupa del “giusto compenso” che, in sé, sappiamo non essere motivante. Certo influenza l’attraction e, in una certa misura, la retention, ma non è in grado da solo di generare motivazione. Se volessimo proprio individuare un collegamento, lo potremmo fare solo in senso negativo: se il compenso è inadeguato – e mi rendo conto che siamo ancora nella scia di Herzberg, quando parla dei “fattori igienici” – l’effetto sarà l’insoddisfazione e, probabilmente, la “fuga”.

 

 

Ma allora, a tuo avviso, qual è il punto?

 

Il punto è che l’engagement, come anche il coinvolgimento, richiedono attivazione delle persone su temi quali la formulazione delle strategie o il miglioramento costante dei processi aziendali… Consideriamo le esperienze internazionali: solo la qualità è in grado di promuovere l’attivazione delle persone. Qualità di cui ci siamo completamente dimenticati, o meglio, che è passata di moda. Ma, se ripensiamo al Total Quality, ritroviamo una ricchezza di strumenti – dalla tradizionale “cassetta delle idee” alle metodologie dei “circoli della qualità” – pensati proprio per muovere le idee e l’impegno delle persone ad ogni livello. Bisognerebbe ripartire da qui.

 

Ma come te lo spieghi allora il fatto che si è abbandonata la via dell’attivazione per accontentarsi di offrire benefit? Che la qualità sia considerata sempre più fuori dagli assets?

 

Le ragioni sono drammaticamente semplici: la ricerca della qualità richiede, a sua volta, un forte engagement e impegno dei vertici aziendali. Oggi come ieri, non basta mettere a disposizione dei benefit o dei servizi di welfare, ma occorre riorientare il funzionamento dell’organizzazione. E, oggi, nella situazione strutturalmente paradossale prodotta dalla globalizzazione, in cui la domanda e l’offerta si muovono in modo disarmonico all’interno di mercati estremamente volatili, obbligando le imprese ad una maggiore competizione in settori tendenzialmente in calo, i vertici hanno il “fiato corto” e concentrano la propria attenzione sul business.

 

E quindi puntano sul Welfare, come una sorta di panacea…

 

Il welfare, ripeto, è solo una parte della compensation consente di “spuntare la lista”, senza però risolvere il problema che abbiamo indicato. Vuoi un esempio tra i molti: l’asilo aziendale. È una risposta fantastica al bisogno di una mamma che altrimenti rischia di dover lasciare l’azienda. Se c’è lei rimane, ma resta comunque demotivata per il suo livello probabilmente inadeguato di coinvolgimento. Se non si sente parte attiva, non è certo l’asilo che la motiva! L’engagement, al contrario, è una strategia che assorbe tempo e attenzione. Se poi si considera che le aspettative delle persone si sono alzate moltissimo, è evidente che le aziende scelgano la via più facile.

 

D’accordo, i vertici sono occupati interamente dal business. Ma, allora, non dovrebbe essere la funzione HR a presidiare questi problemi? Come si muove, oggi, la funzione HR in questo scenario?

 

Sai bene che sono molto critico nei confronti dei colleghi HR, che da tempo si entusiasmano per l’ultima novità di formazione non convenzionale, ma non per la motivazione delle loro persone. Organizzano in continuazione survey sulla soddisfazione, ma poi non entrano nel merito del funzionamento dell’organizzazione.

 

Un giudizio severo, quindi?

 

Sì, il mio giudizio è severo: visto che i problemi ci sono e sono a tutti ben noti o li prendi in mano e dai un contributo reale per risolverli, oppure rendi la tua funzione marginale. E visto che i problemi qualcuno in azienda li risolve, se non sei tu, sarà la Linea a farlo.

 

Vedi il rischio di una sostituzione, più o meno tacita, di altri attori dell’organizzazione nelle aree di competenze che dovrebbero essere proprie della funzione HR?

 

Scusa, ma com’è che gli HR non diventano mai direttori generali? Perché non hanno in mano le leve dell’organizzazione. Sì, fanno micro-organizzazione è vero. Stendono job description e profili di competenze, ma l’organizzazione chi la fa? La fa la Linea. Ho in mente un caso concreto che ha a che fare con la diversity. Visto che è sempre più difficile reperire risorse adeguate, dovresti attivarti per il reperimento internazionale - avvalendoti tra l’altro della nuova legge che riguarda i non laureati fuori quota -. Bene! Ma poi mentre se ne parla con entusiasmo in Confindustria, gli HR nicchiano. C’è il caso Albania, il cui Governo ha bloccato la dispersione dei laureati. Basterebbe dislocare da loro alcune attività e si potrebbe beneficiare di un’offerta consistente e adeguata. Per non parlare del milione di ingegneri che sforna ogni anno l’India. Ma aprire a questa prospettiva, vorrebbe dire farsi carico dei problemi del business, che gli HR faticano a sentire come loro.

 

Ma quindi quello di HR è un problema di leve a disposizione, di competenze, di ampiezza della loro job, o di che altro?

Le leve ci sono, e sono quelle del business e dell’organizzazione. E, come ho ricordato poco fa, gli strumenti non mancano: c’è l’intera cassetta degli attrezzi del Total Quality da rivisitare e semmai aggiornare. A mio avviso, si tratta piuttosto di capire se l’HR accetta di impegnarsi sui terreni che davvero hanno la possibilità di produrre engagement e attivazione delle persone. Si tratta di assumere davvero la funzione di business partnership. Questione non nuova, ma ancora oggi rimane una sfida drammaticamente attuale.

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